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The Kerry Way, Irlanda


Tappa 1: Killarney - Black Valley

Il Kerry Way è più di un sentiero: è un viaggio nell’anima d’Irlanda.

Oggi ogni passo che faccio affonda in una terra antica, selvaggia e remota ed è un invito a rallentare.

Il primo tratto del cammino attraversa le pendici della catena MacGillycuddy che ospita le montagne più alte d’Irlanda mentre i laghi riflettono cieli che cambiano ad ogni mio respiro. 

Mi lascio alle spalle la cittadina di Killarney che mi spinge lungo la penisola di Iveragh, la più grande delle penisole atlantiche del Kerry all’interno del Killarney National Park.

 

Mentre avanzo il tempo si dilata, i pensieri rallentano. “Sto” nel tempo - penso - senza volerlo domare o controllare.

Quando arrivo sulle sponde del lago Muckros, il silenzio mi pervade nel corpo e nell’anima. E’ qui che la natura mi concede il suo imprinting: un legame intangibile quanto indissolubile.

Oggi in alcuni tratti sento forte la solitudine. La Black Valley mi inghiotte nella sua pancia morbida e ovattata.

 

La solitudine non è il vuoto. È uno spazio.

Uno spazio sacro, spesso temuto, in cui le voci esterne si spengono e, finalmente, possiamo sentire la nostra.
E’ quella voce interiore che “resta” quando tutto il resto tace.

La solitudine può far paura, perché ci mette a nudo. Ci obbliga a guardarci senza distrazioni, a stare con ciò che c’è — anche con ciò che non ci piace.
Eppure, è proprio lì che accade qualcosa.
Una resa, un contatto. Un ritorno.

C’è una solitudine che isola, è vero. Ma c’è anche una solitudine che cura.


Che non allontana, ma avvicina: a noi stessi. Ai nostri bisogni più autentici.

La solitudine consapevole non è mancanza.
È presenza.
È scelta.
È il coraggio di restare con sé, anche quando il mondo dice che dovresti riempire ogni spazio.

 

 

Tappa 2: Black Valley - Glencar 

Mi sveglio nella quiete assoluta della Black Valley dove anche il silenzio sembra avere un suono. Il mondo qui pare sospeso, lontano da tutto. 

Solo il mio respiro, la bruma che si solleva piano e le montagne che mi scrutano come guardiane antiche. 

Inizia così la mia seconda giornata sulla Kerry Way. 

 

I primi passi sono ancora intorpiditi dal sonno e dai chilometri di ieri, ma piano piano il corpo si risveglia. 

Mi incammino lungo il sentiero che si snoda tra colline verdi e piccoli ruscelli, avvolta da una bellezza ruvida e autentica, quella che ti obbliga a rallentare e “guardare” davvero.

 

Ripenso a cose a cui non pensavo da anni, mi ritrovo a ridere da sola o a lasciar scendere una lacrima senza un motivo preciso. 

È come se la strada sapesse dove toccare.

Il paesaggio cambia mentre avanzo verso Glencar. 

Attraverso valichi, torbiere e piccoli ponti di pietra dove l’acqua corre libera e gelida. 

Mi sento piccola.

Piccola come parte di qualcosa di molto più grande e questo mi dà un senso di pace profonda.

 

Quando arrivo a Glencar, sono distrutta. Sento nei piedi, ad una ad una, le migliaia di pietre su cui ho appoggiato gli scarponi per tutto il giorno spesso pungenti e scivolose.

Prima di arrivare all’unico posto dove è possibile fermarsi per la notte, mi guardo indietro e mi accorgo che non è solo il paesaggio ad essere cambiato. Sono cambiata anch’io. Abbastanza da sentirmi diversa da quella che stamattina ha lasciato la Black Valley.

 

Domani sarà un altro giorno, un altro passo. 

Ma stanotte, sotto questo cielo irlandese che mi accompagna, mi sento in un cammino profondo dell’anima: un cammino che non va verso una meta, ma va dentro me stessa.

 

 

Tappa 3: Glencar - Kells

Dove finisce il mio passo e inizia l’universo?

Il sentiero oggi si fa vento.

 

Lungo la prima foresta che attraverso, tra felci cangianti e rododendri viola, mi imbatto dentro gli occhi di un giovane cervo: il nostro sguardo ci connette. Nell’anima. 

 

Penso al concetto di entanglement: in fisica quantistica è quel fenomeno per cui due particelle restano connesse anche a distanza, in modi che sfidano la logica. 

Ciò che accade a una si riflette sull’altro, istantaneamente, anche se sono separate da chilometri.

Nella nostra vita ci sono legami che vanno oltre lo spazio e il tempo.

 

Ci separiamo fisicamente… ma qualcosa di quel legame resta.

Nel corpo, nei pensieri, nell’anima. 

Alcune persone non serve che siano presenti nella nostra vita perché continuino ad abitarci.

 

Siamo tutti intrecciati. Non solo con chi abbiamo amato ma con ogni esperienza che ci ha toccati profondamente, anche quando traumatica. 

Guarire significa riconoscere che quella connessione esiste e che possiamo scegliere se viverla come una gabbia o come un ponte.

 

Non sono catene, ma memorie emotive. 

E non si sciolgono con la volontà, ma con la consapevolezza.

Solo quando le riconosciamo possiamo realmente scegliere cosa tenere e cosa lasciar andare.

 

Camminare mi insegna ancora una volta che la guarigione non è una linea retta ma un dialogo continuo tra il dentro e il fuori. Tra ciò che abbiamo vissuto e ciò che decidiamo e scegliamo di essere e diventare, nonostante tutto.

Forse l'entanglement non è solo un fenomeno quantistico. 

Forse è anche un invito a non dimenticare che ogni passo che facciamo nella vita è anche un passo dentro la nostra rete di legami sia quelli da cui continuiamo a trarre nutrimento, sia quelli da cui siamo chiamati a staccarci, per vivere la nostra vita. 

 

La giornata è memorabile per 2 incontri: il primo con uno psicologo in pensione con cui parliamo del potere del mare sulla mente, il secondo con la signora dove dormo stasera che canta a squarciagola gli A - Ha, come se fosse al loro concerto, da quando la incontro a quando la rivedo a cena.

 

 

Tappa 4: Kells - Cahersiveen

Quando tutto si ferma, qualcosa inizia.

Oggi il cammino non attraversa paesaggi degni di nota.

Una sorda campagna, strade asfaltate e pecore. 
Solo chilometri lenti.
 Terra bagnata e passi pesanti.

Eccola qui, ladies and gentleman: Mrs Noia.

 

Viviamo con l’idea che la noia sia un nemico.
 Che se non succede niente, allora niente abbia valore.

Viviamo schiacciati dalla convinzione che se non accade nulla, allora non stiamo vivendo.

Ma oggi, mentre cammino in questa tappa vuota e monotona, ho sentito un invito.

A stare.

A restare.
A non fare.
A non cercare.

A non giudicare.

Ed è lì che ho capito: la noia è come una “soglia”, una porta che ci sembra senza manici. Chiusa. 
Ma che è invece quel punto delicatissimo in cui abbiamo l’opportunità di smettere di riempire e iniziare a sentirci davvero.

E così che la noia oggi si impossessa veemente della mia mente e del mio corpo. 

Emergono voci e sensazioni dimenticate, come la stanchezza che avevo ignorato, la tristezza che avevo nascosto, la domanda scomoda che non volevo farmi. 

Scappiamo dalla noia.
Riempiamo ogni minuto. 

Non ci fermiamo mai. 

Ma se non la ascolti, la noia grida. Urla. E alla fine ti strangola. 

Dietro a quel riempire, dietro a quel grido c’è spesso una verità più grande: la paura di trovarsi da soli con se stessi e con le proprie paure più profonde.

 

Eppure è proprio lì, in quel vuoto apparente, in quell’abisso cosmico e destabilizzante, che possiamo incontrarci.

Perché per quanto ci si provi, da se stessi non si può scappare. Mai. 

Ci si può solo abbracciare, perdonare e permettere di rinascere. 

La noia è uno spazio sacro in cui l’anima si mette in cammino e ci chiede di camminare con lei. 

Questa volta non nel fare ma nell’essere. 

 

Lì, dove - pensiamo - non succeda nulla, ha inizia la nostra rinascita.

 

 

Tappa 5: Cahersiveen - Waterville

Piove. Fuori. Ma anche “dentro”.

 

La 5 tappa incomincia con un cielo plumbeo e una pioggia sottile ma che si annidia.
Una pioggia di quelle che sembrano innocue… e poi ti entrano dentro, inondandoti.
 Sotto la giacca. Sotto la pelle.
 Sotto i pensieri e sotto le parole che da tempo non dici.

 

Cammino.
E ogni goccia mi ricorda una verità antica: non puoi attraversare la vita restando “asciutto”, al riparo. 
Non puoi guarire se continui a coprire tutto con giustificazioni, alibi, scuse. 

E mentre procedo sulla terra fradicia e il vento in faccia che mi schiaffeggia a 80 km/h sento che qualcosa dentro si scioglie. 
Un nodo.
 Una difesa.
 Un dolore che avevo imparato a chiamare “forza”.

 

E poi la tempesta.

Per un momento ha soffiato forte lungo il crinale della montagna aspra e inospitale. 

Come fanno i ricordi, certi giorni. 
Come fa la vita quando ti scompiglia.

E lì ho capito una cosa: la tempesta non viene sempre per distruggerti.
 A volte viene per liberarti.

Per toglierti tutto ciò che trattieni per paura, per abitudine, per protezione. 

Alcune gocce sembrano portare a galla qualcosa: una malinconia che avevo lasciato indietro, una rabbia inespressa.

 

La pioggia non chiede il permesso.
 Ti attraversa.
 Ti ricorda che non puoi sempre proteggerti.
E infine ti riporta “a casa”. Dentro di te. Alla tua verità più nuda. Più bagnata. Più vera.

 

Ci sono tempeste che spezzano. 
E tempeste che rivelano.
Che ti dicono: “guarda, sotto tutto questo, ci sei ancora tu.”

E allora capisci che anche se sei fradicia, stanca, vulnerabile…
sei finalmente integra.

 

Sul cammino, come nella vita, a volte è la pioggia a salvarci.
Non quella che arriva per punire.
Ma quella che ci spinge a continuare a camminare, a non gettare la spugna. 

A rinascere ancora e ancora se necessario. 

Perché la vita è questo. 

Mille volte morire e mille volte rinascere. 

 

 

Tappa 6: Waterville - Caherdaniel

Invecchiare è imparare a stare con tutto ciò che resta.

La tappa di oggi è poesia, è magia, è fiato trattenuto per la troppa gioia che vuole rimanere dentro mente, corpo e anima per sempre!

 

Stanotte la tormenta ha accompagnato i miei sogni, mentre il sibilo del vento si faceva strada negli infissi dei lucernari della mia camera adagiata sotto al tetto.

 

Quando parto, stamattina, ritrovo lo stesso vento sul sentiero, sulle scogliere e nelle onde che si increspano irriverenti sulla battigia bianchissima. 

 

L’incontro con Marie, una donna di 78 anni che continua a camminare da sola, mi rapisce.

Vederla avanzare davanti a me mentre mi dice in irlandese stretto che preferisce camminare da sola piuttosto che chiacchierare mi fa sperare di poterlo dire anche io un giorno, tra 30 anni, che sono quelli che ci separano, ad un’altra “giovane donna”.

 

Oggi ho pensato costantemente all’invecchiare e a come spesso viene vissuto: un decadere, un perdere, un “non essere più”.

 

Ma invecchiare è in realtà rallentare con grazia, è fare pace con ciò che non è andato e rallegrarsi con quello che ha funzionato e che continuiamo a raccontare ai figli, ai nipoti, ai “giovani” amici. 

Invecchiare è aver imparato ad amare senza più stringere,
è guardare comunque avanti con fierezza, nonostante tutto. 

Spesso chi invecchia sente di non “servire più”.
 Come se valessimo solo finché produciamo, seduciamo, corriamo.

Ma l’età non ci toglie valore: lo trasforma. Diventa profondità, intuizione, memoria viva.
Diventa la capacità di stare e di essere.

 

Invecchiare, forse, è abitare se stessi con più verità.

 

Quando smettiamo di rincorrere l’immortalità che crediamo di possedere, iniziamo a sentire davvero il senso della vita.

 

Invecchiare è un privilegio.

È il tempo che ci regala spazi nuovi: per rallentare, per amare con un pò meno paura, per dire “basta” dove serve. Per accettarci per la meraviglia che siamo ancora. 

 

Ma invecchiare, più di tutto, è essere ancora vivi. 

Siamone grati. 

 

 

Tappa 7: Caherdaniel - Sneem

Oggi la tappa è completamente e costantemente ritmata da una pioggia sorda quanto incessante. 

Il vento fa il resto. 

Insieme rendono la giornata estenuante. 

 

Stamattina mi rendo conto di aver dolore ai piedi. Mi fermo e maledette solette rimaste al B&B! La sicura irlandese non le ha rimesse dopo avermi asciugato gli scarponi e io non me ne sono accorta!

La perdono per non essersene accorta? Mi perdono per non essermene accorta?

Perdonare non è dimenticare. 

Quando scegliamo di perdonare noi stessi o qualcun altro non stiamo dicendo che il dolore non sia esistito.

 

Perdonare non è scusare.
Non è dire che non ha fatto male.
Non è giustificare l’ingiustificabile.

Perdonare è smettere di ferirsi ogni volta che si ricorda.

Perdonare è liberare se stessi.

Liberarci dal peso di portare quella ferita ogni giorno per non lasciare che il rancore ci rubi l’anima.
È dire “basta” a quella voce che continua a giudicarci anche quando il dolore è già passato.

E’ riconoscere le proprie ferite e scegliere di non sanguare più da lì.

 

Perdonare è smettere di essere prigionieri .
È tagliare quel filo invisibile che ci tiene legati a una situazione che continua a farci male anche quando è finita.

Ancora più difficile, è perdonarci.
 Per tutte le volte in cui ci siamo “lasciati indietro”. 
Per tutte le volte che siamo rimasti in situazioni che ci spegnevano.

 

Perdonarci è un atto rivoluzionario di amore verso noi stessi.È accogliere il nostro passato con uno sguardo nuovo per non lasciargli più il potere di tenerci fermi. Al palo. 

La nostra vita merita di andare oltre quel dolore.

 

(I miei piedi stasera ricordano benissimo… ma si impegnano a perdonare e a perdonarmi).

 

 

 

Tappa 8: Sneem - Greenane

Oggi, sull’ottava tappa del cammino, ho sentito tutto il peso della fatica.

Non solo quello fisico… ma anche quello più sottile, quello mentale ed emozionale.

Quella che ti fa sentire fragile.

 

Camminando ho pensato a tutte le volte in cui, nel passato, ho chiesto troppo a me stessa.
A quando ho confuso il coraggio con il controllo.
La forza con l’invulnerabilità.

Chi siamo quando smettiamo di “resistere”?

E’ questo che insegna la fragilità: che non siamo venuti al mondo per essere impeccabili, perfetti, forti a tutti i costi. 
Ma per essere interi.
Anche con le crepe.

La vita consta non soltanto d’integrità, ma anche di rottura e, come tale, va accolta…

In Giappone si chiama Kintsugi, quando un oggetto in ceramica si rompe e lo si ripara con l’oro, perchè un vaso rotto diventa ancora più bello di quanto già non lo fosse in origine.

E allora è proprio grazie a quelle crepe che non solo diventiamo più preziosi ma la luce riesce ad entrare profondamente fino a toccarci nell’anima.

Dobbiamo imparare a camminare con le nostre fragilità, non contro di esse.
Imparare a sentire quanto siano umane e quanto ci appartengano.

 

La fragilità non è un fallimento.

Imparare a stare con la propria vulnerabilità significa imparare ad accogliere la vita con più autenticità.

Fragilità e forza non si escludono.Si intrecciano.

 

Non siamo forti nonostante le nostre fragilità.

Siamo forti grazie a loro. 

Quelle parti che ci fanno inciampare, dubitare, crollare… ma che ci insegnano a rialzarci con più consapevolezza.

Con più cura. Con più verità.

 

Non siamo qui per diventare invincibili.
 Siamo qui per diventare esattamente chi siamo. Partorendoci più e più volte.

 

Le fragilità non sono da nascondere.

Sono da onorare.

 

 

Tappa 9: Greenane - Kenmare

La sofferenza fa parte della vita. Come le salite improvvise, il fango, la pioggia che arriva senza avvisare.
Non possiamo evitarla.
 Ma possiamo scegliere come rispondere.

 

Il cammino mi ricorda che non esiste equilibrio che non venga continuamente messo in discussione.

 Restare presenti, umani, autentici anche nella sofferenza, questa è la vera sfida!

Oggi la meditazione camminata scandisce quasi tutti i miei passi sul sentiero. Insieme al mio respirare con presenza e consapevolezza. 

A ricordarmi che ogni onda, anche la più alta, prima o poi torna a farsi mare calmo.

 

La vita è come le montagne russe.

Ci sono salite lente, in cui tutto sembra fermarsi. Attese. Sospensioni.
 Ci sono discese improvvise che tolgono il fiato. 
E poi curve strette, giri a vuoto, accelerazioni che non controlli.

È un continuo alternarsi di emozioni, di stati d’animo, di eventi.

 

Il punto non è evitare le montagne russe.
 Dobbiamo allenarci a non aggrapparci troppo né all’alto né al basso. A mantenere una prospettiva più ampia. 
Più matura. Più stabile. 

 

Quella che non nega nulla ma contiene tutto.

E trasforma. E ci trasforma. 

Perché c’è una sola costante nella nostra vita: il cambiamento. 

 

 

Tappa 10: Kenmare - Killarney

C’è un momento, nel cammino, in cui smetti di cercare il traguardo.

Smetti di pensare a quanto manca, a dove sei, ai dolori del corpo che scricchiolano con te e inizi a “stare” con quello che c’è.

A prescindere.

 

In fondo, non conta davvero dove arrivi ma come ci arrivi. Contano i passi dentro. Quelli fuori sono solo un mezzo per aiutarti ad incontrarti. 

Conta se sei statə fedele a ciò che ha valore per te.
 Conta se hai avuto il coraggio di camminare anche quando tutto sembrava restituire pioggia, scontro e resa. 

Conta se hai imparato a onorare ogni passo. Anche quello incerto.

 

Perché non esiste il momento perfetto.
Esiste questo momento. Questo passo. Questo. Solo questo. 

E “questo” momento è l’unico tempo reale in cui possiamo esistere. 

 

Non aspettare che tutto si perfetto per iniziare.

Non aspettare che la paura sparisca, che gli altri “capiscano”, che la strada sia definita e tracciata.

Parti adesso.

Con quello che sei. Con quello che hai.

Fallo per te.
 Per la parte più viva, più vera, più libera di te.

E ovunque tu abbia deciso di andare, vacci con tutto il cuore. Con dignità, con umiltà, con qualsiasi sia il peso che porti. 

Troverai dove lasciarlo.

Con gratitudine per ogni inciampo che ti ha insegnato a restare in piedi. 
Con fiducia in ciò che ancora non sai ma che ti aspetta.

 

La fine di un cammino non è mai una fine.
 È sempre un nuovo inizio.

È lo spazio sacro in cui puoi dirti:"Si."

Onora il tuo tempo.
Onora chi sei. 
E soprattutto, onora la vita.

E’ l’unica che hai.

 

 


 
 
 

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